Uno dei più grandi artisti sperimentatori nel panorama del secondo Novecento italiano, torna tra le sale di un museo dopo più di vent’anni: al Museo del Novecento di Milano va in scena la mostra Remo Bianco. Le impronte della memoria, fino al 6 ottobre 2019.
La rassegna è realizzata dal Museo del Novecento e Comune di Milano – Cultura in collaborazione con la Fondazione Remo Bianco. La curatrice Lorella Giudici, affiancata dal comitato scientifico della Fondazione, ha selezionato oltre 70 opere dell’artista per ripercorrere alcune tappe della carriera dell’artista.
Remo Bianco, nome d’arte di Remo Bianchi (Milano 1922 – 1988), si è definito un “ricercatore solitario”, spinto a sperimentare nella propria arte i materiali e le tecniche più diverse che la realtà gli suggeriva. Comunque ben inserito nel mondo dell’arte della Milano del secondo dopoguerra, ha sempre preferito non appiattire il proprio linguaggio su l’una o l’altra corrente, che avrebbe altrimenti potuto seguire per moda o facilità di successo nelle vendite.
Approccio divertito, ironico, quasi scherzoso il suo: dicono che si divertisse a compiere strani “gesti artistici” come nascondere gruzzoli di monete sotto le pile di materiali da costruzione nei cantieri, per fare una sorpresa ai fortunati muratori. Da questo carattere deriva la sua sperimentazione incessante, che non trascura, però, l’attenzione ai rivolgimenti dell’arte internazionale.
Vediamo in mostra i suoi Collage iniziati negli anni ‘50: carte o tele ricoperte di schizzi e colate di colore, poi ritagliate e assemblate secondo precise griglie. Un tentativo di riportare l’ordine nell’astrattismo informale, e apparentemente casuale, di Jackson Pollock, che Remo Bianco aveva conosciuto durante un viaggio in America.
Suggestioni diverse, di viaggi altrove, verso l’Oriente, lo trasformano in un costruttore: strane strutture si innalzano improbabili come castelli di carta. Pagode le chiama, e le ricopre come una pelle con le stesse carte e tele dei Collage. Addirittura, aveva proposto di sostituire con una monumentale Pagoda delle sue il campanile di San Marco a Venezia, che è comunque una ricostruzione fedele dopo il crollo del 1902.
Nel 1956 Bianco giunge a teorizzare il Manifesto dell’Arte Improntale: obiettivo è conservare la traccia e il ricordo delle “cose più umili che di solito vanno perdute”. Spinto da questo desiderio aveva iniziato a elaborare opere chiamate Impronte: calchi in gesso, gomma o cartone pressato di piccoli oggetti comuni o parti del proprio corpo, fossili di una moderna preistoria di metà Novecento.
Con spirito da archeologo del presente, realizza anche dei Sacchettini – Testimonianze pieni di ninnoli e cosine di poco conto (conchiglie, soldatini, macchinine, piccoli rottami), ordinatamente disposti su tavole di legno come un catalogo di reperti pronto per gli studiosi del futuro.
Contemporaneamente a questi lavori sull’Arte Improntale e sulla memoria delle cose, l’artista inizia a realizzare negli anni ‘50 anche una delle sue serie più famose: i Tebleaux Dorés. Nate dall’esperienza dei Collage, queste tele, spesso di grandi dimensioni e monocrome, sono ricoperte da un regolare intreccio di foglie d’oro.
Alcuni testimoni del tempo sostenevano si fosse lasciato ispirare dalle figure dei tarocchi che sua madre leggeva per il vicinato, improvvisandosi cartomante di un quartiere popolare nell’affaticata Milano del dopoguerra. Ecco che, assolutamente astratti, eppure così concreti nelle grinze della foglia d’oro che cattura e riflette la luce irregolare, i Tebleaux Dorés sembrano alludere a una dimensione mistica e spirituale.
Tra le Impronte della memoria, numerose sono le Sculture neve esposte in mostra. Quasi a volerli congelare per preservarne il ricordo, Remo Bianco ricopre oggetti di consumo e giocattoli di una polverosa coltre di neve artificiale, realizzando piccoli teatrini, teche trasparenti come acquari della memoria.
Interessato a salvare dallo sbiadimento del tempo le tracce, le sensazioni e i sentimenti legati a questi oggetti, l’artista si lascia affascinare, nell’attenzione curiosa e divertita per i nuovi materiali, da quello che doveva apparire allora un meraviglioso ritrovato della chimica: la neve finta, che possiamo ancora oggi apprezzare “sprayata” in abbondanza sui presepi e gli alberi di Natale più improbabili.
Quest’affinità con i nuovi materiali anche plastici e artificiali, come in alcuni dei suoi 3D che passano negli anni dal legno al plexiglass, si accompagna anche alla ricerca di nuove forme di espressione artistica. Per esempio, quella che risuona ancora dopo decenni dai Quadri parlanti è l’autentica voce dell’artista, che si rivolge direttamente ai visitatori che provano ad avvicinarsi.
Le opere esposte sono accompagnate da una ricca documentazione d’archivio: pagine di riviste, fotografie d’epoca, pubblicazioni, locandine che ben restituiscono il contesto storico di quegli anni. Ulteriori approfondimenti sono affidati ai testi e agli apparati del catalogo, edito da Silvana Editoriale.
Tutti gli aspetti di curiosa sorpresa che la mostra sottolinea ci sembrano suggerire quanto Remo Bianco sia stato un artista sempre un passo avanti, e ancora oggi attuale. Non ci resta che suggerirvi di fare un salto a vedere Le impronte della memoria, per poter incontrare le opere di un personaggio un po’ strano, se volgiamo, ma che merita assolutamente di essere riscoperto e valorizzato.
INFO
Remo Bianco. Le impronte della memoria
Milano
Museo del Novecento
fino al 6 ottobre 2019
La visita della mostra è compresa nel biglietto di ingresso al Museo: 10 € – 8 € – 5 €
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