Toni Servillo, fra i migliori attori della scena internazionale e che non ha bisogno di presentazioni è tornato al Bellini di Napoli, fino al 20 gennaio, con Elvira (Elvire Jouvet 40), spettacolo che lo vede nel suo stato di grazia, come attore e regista, qui riproposto dopo una tournée internazionale di successo.
Elvira è un testo interessante che ha un’origine illustre. Si tratta di un adattamento per la scena delle sette lezioni che Louis Jouvet tenne al Conservatoire National d’Art Dramatique e che furono stenografate dalla sua assistente Charlotte Delbo nel periodo in cui si svolsero le lezioni, tra febbraio e settembre del 1940 a Parigi. Un anno cruciale che segnò il destino di molte persone e della città stessa e il cui peso storico (l’occupazione nazista della città) si percepisce perfettamente dalla messa in scena di Servillo. Una trasposizione del rifacimento di uno spettacolo francese di successo del 1986 dal titolo Elvire Jouvet 40 di Brigitte Jacques-Wajeman.
Elementi di scena semplici ed essenziali: una scrivania con una lampada, una sedia, un libro e un copione, un’altra sedia sullo sfondo con accanto una radio (elemento scenico fondamentale che ci aiuta, con le sue incursioni, a contestualizzare ciò che accade) e una fila di poltrone rosse ricavate dalla stessa platea del Bellini e separate, quale elemento scenico appunto, da due file di poltrone coperte da un telo bianco. Ciò significa che l’azione supera la ribalta per entrare nello spazio del pubblico stesso, presenza muta che assiste come stesse spiando la preparazione della protagonista ad una scena del Don Giovanni di Molière.
È inevitabile pertanto sentirsi privilegiati e in qualche modo anche coinvolti nell’azione come se realmente fossimo lì, nel 1940 con i protagonisti della storia, come se lo stesso Jouvet ci avesse aperto le porte del teatro per assistere alla lezione. Tanto è più forte questa sensazione quando Toni Servillo si rivolge alla platea stessa e pur essendo nel personaggio di Jouvet che si rivolge all’allieva.
Questo spettacolo è da ritenersi fondamentale per il valore didattico che assume. A parer mio dovrebbe essere visto e studiato dagli aspiranti attori, registi e sceneggiatori che intendono fare della narrazione e dell’arte il proprio mestiere. La lezione fondamentale che se ne ricava è: bisogna lavorare sul sentimento perché è questo che smuove tutto, che porta avanti la storia, che supera la ribalta e arriva al fruitore dell’opera.
Jouvet, all’inizio dell’opera, dice una cosa fondamentale che da avvio alla riflessione sul processo creativo che ne consegue: nulla di ciò che si fa senza sforzo è cosa buona. Per ottenere il massimo da un lavoro di qualunque tipo occorre un certo sforzo. Dove non c’è questo sforzo non c’è un vero risultato.
E così non possiamo fare a meno di pensare che quelle di Jouvet siano lezioni di vita.
In scena con Toni Servillo e Petra Valentini (Claudia/Elvira) vi sono altri due giovani attori che riescono a tenere la scena e marcare comunque la propria presenza anche se di fatto hanno molte meno battute e tutto ruota intorno ai due attori principali: Francesco Marino (Octave/Don Giovanni) e Davide Cirri (Leòn/Sganarello).
A completare l’azione, come si è detto, c’è il quinto personaggio rappresentato dalla radio che interviene in alcuni momenti.
Mentre si parla di arte, narrazione, sentimento e amore la voce di Hitler irrompe in scena suscitando inevitabilmente un senso di angoscia e assenza di libertà. È un elemento di disturbo che va in forte contrasto con il processo creativo al quale assistiamo.
L’arte è vita ed è libertà e spesso ancora oggi viene minacciata dal potere ottuso e dittatoriale. Ciò fa di Elvire Jouvet 40 un testo fortemente attuale.
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