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1984, la recensione della pièce di Matthew Lenton tratta da George Orwell

Fino al 2 dicembre è di scena al Teatro Bellini di Napoli 1984 lo spettacolo tratto dall’omonimo romanzo di George Orwell e diretto da Matthew Lenton, tornato in Italia dopo Interiors presentato al Napoli Teatro Festival nel 2009.
La pièce vede un cast tutto italiano e il testo consiste sostanzialmente in una drammaturgia del romanzo, mantenendosi per lo più fedele all’opera di origine.

Pertanto la trama riprende la narrazione distopica proposta da Orwell, ossia la Londra da lui immaginata nel 1984 all’indomani di una guerra atomica, scoppiata pochi anni dopo la seconda guerra mondiale e che ha diviso la Terra in tre potenze, in lotta fra loro e governate da regimi totalitari: Oceania, Eurasia ed Estasia. Nel superstato di Oceania, la società è controllata da un Partito che basa il suo potere sui principi del Socing, un socialismo estremo, il cui comandante supremo è il Grande Fratello.
Le principali città sono sorvegliate da pattuglie della Psicopolizia, una feroce organizzazione paramilitare poliziesca che ha come obiettivo, attraverso lo spionaggio, di tenere sotto controllo la vita dei cittadini (costretti ad indossare delle tute azzurre numerate) affinché non commettano un qualsiasi “psicoreato” (ossia non pensino a cose scomode al regime).

Mai un testo fu più azzeccato di 1984 in questo particolare periodo storico e lo sa bene Lenton che ha voluto mettere in scena la storia facendo dei chiari riferimenti al presente, servendosi dei mezzi scenografici e degli stessi interpreti, pur restando fedele al testo originale.

La prima cosa che occorre dire è che questo spettacolo o per meglio dire “esperienza teatrale” non si è presentato come vuole la tradizione a cominciare dalle luci che non si sono spente un attimo prima dell’ingresso degli attori come avviene di solito per creare l’atmosfera di ingresso alla scena. Questi ultimi, infatti, hanno letteralmente fatto irruzione sul palco e con un sapiente effetto di straniamento si sono rivolti al pubblico in sala fuori dal personaggio, come attori, che intendevano fare un dibattito prima dello spettacolo, circa i temi di 1984. Da questo momento lo spettatore ha compreso che non sarebbe stata una serata come un’altra, di quelle che magari ti puoi addormentare in poltrona se lo spettacolo non ti prende.

Di solito quando si parla di teatro si parla di esperienza, soprattutto per il contatto diretto che intercorre fra gli attori in scena e il pubblico. Quasi mai, però, uno spettacolo risulta davvero un’esperienza; forse perché ci siamo assuefatti un po’ a tutto e poche cose ci sorprendono davvero. Molto spesso capita di andare a teatro e trovare gli stessi gruppi di persone, quasi sempre di una certa età, schierati in poltrona e preparati di tutto punto per l’occasione (perché da secoli si va a teatro per guardare ma anche per farsi guardare) che si accomodano in quello che praticamente è il loro regno e male che gli vada si fanno una pennica durante lo spettacolo se questo non li soddisfa.
Ebbene, per molte di queste persone presenti in sala la prima di 1984 non è stata una “pennica” facile.

Il pluripremiato regista scozzese, infatti, ha voluto stuzzicare la platea per sollecitarla, disturbarla, provocarla, impedirle appunto di rilassarsi troppo e fruire passivamente dello spettacolo.
E mi dispiace dirlo, molte persone si sono presentate in teatro con quella intenzione. Quando i più hanno capito l’andazzo è partita la tipica epidemia di tosse che accompagna gli spettacoli dal vivo e che non si spiega come mai sia una costante del teatro.

In un certo senso è come se Lenton ci avesse metaforicamente preso a schiaffi dicendoci: “Sveglia! Non è più tempo di dormire!” e lo ha fatto attraverso torce luminose puntate verso il pubblico in alcune scene cruciali, lo ha fatto con stimoli sonori forti e improvvisi che hanno persino fatto saltare qualcuno dalla sedia e tutto questo sempre seguendo un ritmo e un andamento tali per cui non c’erano mai più di cinque minuti di tranquillità. Nel corso della pièce non ci si è potuti mai lasciare andare e anche i “campioni olimpionici di tosse a teatro” hanno dovuto trattenere il fiato in alcuni momenti perché piuttosto turbati dalla visione generale. Alcune persone poi hanno lasciato la sala prima della fine forse perché annoiate o perché non hanno compreso fino in fondo il messaggio o, come io credo, perché lo hanno compreso troppo bene e il senso di disagio che ne è derivato è stato insopportabile.

Come si è detto, niente della messa in scena si è svolto secondo i canoni. Il “disturbo” e lo “straniamento” si sono presentati subito, ex abrupto, senza avvertimento, senza l’accompagnamento del lento spegnersi delle luci in sala.
Come spesso capita nella vita, così dal nulla, con l’intenzione di rompere l’equilibrio sono usciti dalle quinte tre ragazzi, due attori e un’attrice che lì dichiaravano di essere fuori parte. Hanno detto che il regista voleva iniziare ogni performance con una sorta di dibattito e sollecitavano anche il pubblico a intervenire.
Così uno dei tre a iniziato con una domanda circa l’attualità o meno di 1984 di Orwell e da lì ne è nata una discussione politico – sociale che ha portato i tre a discutere animatamente fino all’arrivo di un rumore assordante e poi il buio pesto che hanno interrotto tutto e ci hanno buttati nella situazione.
la scena si è rivelata pertanto un momento di meta teatro, un inganno e allo stesso tempo una dichiarazione di intenti, un’immagine tipica del mondo di oggi: il dibattito fine a se stesso nel quale ciascuno crede solo nella propria opinione senza considerare quella altrui.
Con questa introduzione che potremmo definire “brutale” ci siamo ritrovati così catapultati in un mondo distopico che purtroppo è molto verosimile a quanto stiamo vivendo quotidianamente.

La scena si presenta pressoché spoglia con al centro un riquadro luminoso all’interno del quale si svolgono le azioni emblematiche della storia oppure quelle che devono essere decontestualizzate per essere messe in evidenza. In altri momenti un occhio gigante osserva la scena ma anche noi. Il riquadro per pochi secondi ha creato anche un effetto specchio sulla platea suscitando ulteriore inquietudine nel vedersi riflessi sulla scena.

Il regista ha scelto di affidare alcuni pezzi del racconto a una sorta di voce narrante che sostanzialmente rappresenta la coscienza del protagonista Winston e tutti i suoi più oscuri pensieri. Questa coscienza è vestita di rosso e interpretata da una donna che alla fine dello spettacolo viene recuperata dalla Psicopolizia che compare dal fondo della platea e, attraversando il pubblico la preleva per arrestarla.
Anche l’intervento fuori scena della Psicopolizia che porta con sé l’eco delle SS naziste è stato un effetto sconcertante per il pubblico dal momento che sull’ultima battuta del personaggio – coscienza si sono accese le luci facendo pensare ad una conclusione e infatti diverse persone si sono alzate molto velocemente e si sono avviate verso l’uscita, per altro intralciando gli attori che si muovevano dalla parte opposta.
Quest’ultima imbarazzante situazione, insieme al continuo tossire da parte di alcune persone sono stati gli unici elementi negativi della serata.

Vi si ritrovano, in questa versione di 1984 diverse suggestioni che ricordano per esempio Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini oppure The handmade’s tale (2017) la fortunata serie televisiva tratta dall’omonimo romanzo di Margaret Atwood pubblicato nel 1985 o ancora il film The circle (2017) quest’ultimo molto vicino allo spionaggio e alla dittatura di pensiero che vediamo nella storia di Orwell qui adattata per le scene dallo stesso Lenton con Martina Folena.
Negli esempi citati e messi a confronto vi sono mondi differenti tra loro per le dinamiche dittatoriali ma tutti uniti nello stesso brutale assunto: un mondo privo di libertà e autonomia di pensiero e scelta nel quale tutti siamo controllati. Vi ricorda qualcosa?

Vorrei concludere questa mia riflessione con una preghiera: sarebbe bello per una volta andare a teatro o al cinema e scoprire un pubblico consapevole e che sa stare in sala senza credere di essere ancora comodamente seduto in poltrona a casa propria. Un pubblico che guarda e ascolta con attenzione e che, se ha scelto di uscire di casa per andare a Teatro deve essere consapevole di condividere uno spazio comune.
Purtroppo finché l’indifferenza e la fruizione passiva delle quali siamo vittime continueranno a essere una costante della nostra vita, nessuna opera come 1984 potrà mai davvero attecchire.

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