Storia di un precario innamorato e aspirante scrittore
Napoli mon amour di Alessio Forgione, edito da NN Editore, racconta un mondo, quello del precariato, che conosciamo bene. Ne abbiamo discusso, ci abbiamo ragionato, lo abbiamo analizzato ma lui è sempre lì ed è sempre attuale. Credo sia uno di quei pochi argomenti del contemporaneo che non passa mai di moda e che sicuramente affligge più fasce d’età; in particolare quella dei trentenni. A quanto pare, fra le molte cose che preoccupano l’essere umano del terzo millennio, il giro di boa dei “trenta” è particolarmente problematico, soprattutto se vivi a Napoli e non hai un lavoro; il che suona come un classico cliché nonostante sia maledettamente vero.
Il punto di partenza della storia di Forgione è proprio questo e detto così sembra un incipit un po’ banale perché film e libri che affrontano questo discorso e lo inseriscono nella città meno stabile e tranquilla del mondo, com’è Napoli, se ne sono visti tanti.
E dunque, in cosa è diversa questa storia?
In effetti non ha proprio nulla di differente dalle molte storie che abbiamo già sentito sull’argomento. L’autore ha sapientemente mescolato pezzi di letteratura e cinema che fanno parte dell’immaginario collettivo e li ha inseriti nel romanzo, buttandoli qua e là alla bisogna, a fare da contorno alla vita del trentenne Amoresano il protagonista del romanzo. A cominciare dal titolo che richiama Hiroshima mon amour di Alain Resnais, celeberrimo film del 1959 al quale l’autore dedica anche un’intera scena della storia.
Il protagonista è cresciuto nella periferia di Napoli e sogna di fare lo scrittore come Raffaele La Capria, il suo idolo letterario e autore del suo romanzo preferito: Ferito a morte. Mentre cerca di trovare un lavoro, affrontando colloqui spesso fallimentari, Amoresano conosce una ragazza di circa vent’anni della quale si innamora a prima vista una sera in cui gioca il Napoli e lui sta guardando la partita in un bar di Piazza del Gesù.
Il giovane precario fa qualcosa che si vedeva spesso nei film di una volta come Uomini che mascalzoni (film di Mario Camerini del 1932 con un giovanissimo Vittorio De Sica): segue la bella ragazza finché quest’ultima non accetta di parlare due minuti con lui.
Fin qui, la lettura del racconto con le descrizioni di Napoli e di quanto sia bella e difficile, unite alla noiosa quotidianità del protagonista, risultano godibili anche se rischiano di essere ripetitive. Per fortuna l’autore inserisce un twist nella storia con l’arrivo di Lola (come si fa chiamare lei all’inizio).
Fino a quel momento Amoresano si divide tra le partite del Napoli e le uscite con il suo migliore amico Russo, il tutto annaffiato da litri e litri di birra al punto da indurre la nausea perfino a noi lettori; che viene da chiedersi come possa non morire per cirrosi epatica dopo quaranta pagine che lo vedono bere in continuazione.
La svolta, come dicevo, arriva con il personaggio di Lola (si fa chiamare così per Lolita di Nabokov, il suo romanzo preferito) che subito il nostro protagonista fa diventare la sua ragione di vita, aggrappandosi a questo amore ancora acerbo come unica certezza e punto fermo nel caos che lo affligge. Ed è proprio con i primi romantici appuntamenti di Amoresano con Lola che scopriamo il vero obiettivo del protagonista: andare a Roma da La Capria in persona e consegnargli i propri racconti. Questo “dettaglio” viene totalmente bypassata dall’autore per il primo quarto del romanzo e poi ce lo butta lì come se niente fosse… Inoltre il modo in cui il protagonista raggiunge il suo scopo è piuttosto semplice e privo di reali ostacoli.
Quando però La Capria in persona telefona al nostro protagonista per complimentarsi con lui e incoraggiarlo a scrivere è lì che “la noia” alla Moravia che affligge il personaggio e noi lettori viene spazzata via da un po’ di speranza, subito soffocata dallo stesso autore che preferisce tediarci con il prosieguo della storia d’amore con Lola e l’autocommiserazione di Amoresano che di sano non ha proprio nulla.
In effetti non succede quasi niente nella storia e quel poco che capita se ne va come è arrivato.
Viene da chiedersi se non sia voluto questo nichilismo che trasuda dalle pagine arrivando alla stessa scrittura e raggiungendo la struttura della storia che ne esce alquanto indebolita. Ma, forse, la verità è che questo romanzo d’esordio, come molti romanzi del genere ha una componente autobiografica molto forte.
A ben pensarci, c’è una certa somiglianza tra Napoli mon amour e I vitelloni (1953) di Federico Fellini e allo stesso tempo La febbre del sabato sera (1977) di John Badham. La somiglianza è nel nichilismo di cui sopra e nella generale nullafacenza dei protagonisti che sembrano aver accettato passivamente le loro vite vuote; tutti eccetto il protagonista che naturalmente cerca di emergere e, naturalmente, non ci riesce.
Per concludere vorrei spendere due parole sul protagonista: le disavventure di Amoresano sono le stesse che capitano a molti ragazzi della sua età e non è difficile provare la stessa frustrazione che prova lui quando si fa i conti in tasca e si accorge che i soldi stanno per finire. Chi non ha provato quell’ossessione di contare continuamente quanti soldi restano e valutare per quanto tempo si potrà fare a meno dell’aiuto dei genitori?
Eppure, nonostante questa forte affinità di situazioni, ho trovato il protagonista di questo romanzo piuttosto antipatico. Non sono davvero riuscita a farmelo piacere, ha qualcosa nel modo di agire e di comportarsi che mi infastidisce.
In ogni caso, trattandosi di un esordio, presenta un difetto tipico: non approfondisce abbastanza. Suggerisce, evoca, ricorda, accenna, ma non va molto a fondo nei personaggi e nelle situazioni.
Nel caso specifico di questo romanzo è un vero peccato, perché ci sono delle idee brillanti e un’ironia interessante.
Non è difficile tuttavia pensare che potrà esserci un secondo romanzo di Forgione che ci fa ben sperare nell’evoluzione della sua scrittura.
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