<<Il dolore è traditore, viene fuori piano piano>>: questa, per me, è la chiave del film, il codice da memorizzare e ripetere per decriptare il mistero dello scompenso e della rabbia che la storia lascia allo spettatore.
Un crescendo di dolore silenzioso si allunga nei giorni selvaggi e si origina da un fatto talmente brutale e spaventoso che Stefano Cucchi, interpretato magistralmente da Alessandro Borghi, non voleva riportarlo a nessuno, se non in rare e disperate occasioni.
Forse perché solamente rammentarlo gli destava angosce non da poco, nella consapevolezza che voltarsi indietro sarebbe stato inutile, o forse, perché attendeva che gli altri avrebbero preso in carico il suo problema. Ma l’aspettare qualcuno, seppur non volutamente, non gli ha creato ancora più danno?
Il film è un racconto serrato, non una denuncia accesa, ma un atto di giustizia per immagini che ha la forza di scuotere e, molto probabilmente, di portare più luce su una strada ancora lunga, perché “Dove non arriva lo Stato arriva il cinema”.
Quest’ultimo è il titolo dell’articolo che Il Fatto Quotidiano ha dedicato al film d’apertura della sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2018 e che mi ha segnata particolarmente.
Stefano Cucchi, infatti, è stato il 148° dei 172 deceduti in carcere nel 2009. Un totale umano inaccettabile che ha spinto Alessio Cremonini, regista del film, a lavorare su una vicenda che insegue una terribile verità e lo fa con assoluto equilibrio.
Alessandro Borghi sembra aver plasmato se stesso per restituirci fin nei minimi dettagli la personalità di Stefano. La sua è un’interpretazione talmente profonda e libera da sembrare come se l’attore protagonista avesse il diritto di ricordare a noi spettatori chi fosse Stefano. Perché nonostante la rabbia o quel nodo alla gola per il finale straziante conosciuto a priori, lo spettatore può essere grato di saperne di più.
Che sia morto al Sandro Pertini di Roma il 22 ottobre 2009 a causa delle percosse ricevute nella caserma dei Carabinieri Appio-Claudio lo si sapeva già; ciò che mancava però era far conoscere nel profondo la lentezza di quei giorni di dolore insensato.
Questo è arrivato, al cuore e alla pancia, insieme alla fastidiosa sensazione di poter rimanere solo a guardare. Ma la forza del film si rivela ugualmente: nonostante la morte, questo parlarne così tanto di adesso è la vera vita, e forse è anche l’atto che restituisce un po’ di giustizia a Stefano.
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