«Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa».
Importante: prima di iniziare a leggere Le Otto Montagne munirsi di un paio di scarponi da trekking, perché la potenza della scrittura di Paolo Cognetti è talmente intensa da non lasciarvi altro desiderio di essere (o andare il prima possibile) su quelle immense montagne che lui descrive con tanta passione e amore. Un amore che, nel bene o nel male, nella buona e nella cattiva sorte, non può che essere autentico.
La montagna amata da Cognetti è quella estiva, quella fatta di scoperte, di camminate, di boschi, pascoli, torrenti e rocce; non lo è invece quella invernale, fatta di piloni e seggiovie che hanno poco a vedere con la natura, anzi è una montagna profondamente odiata per fatti che si scoprono mano a mano nella storia.
Lo scrittore milanese classe ’78 presenta il suo quarto lavoro, per la prima volta edito da Einaudi, e ci lascia senza fiato. Un capolavoro indiscusso che merita di essere portato al prossimo Strega su un vassoio d’argento e, non mi voglio sbilanciare per scaramanzia, merita di ricevere i dovuti riconoscimenti.
Il romanzo esplora la solitudine e la crescita di Pietro e del suo amico di una vita, Bruno, tra gli anni ’80 e i giorni nostri. Una storia di amicizia tra due ragazzi poi uomini, così tanto diversi da finire per assomigliarsi; un viaggio avventuroso e spirituale fatto di fughe e tentativi di ritorno alla ricerca continua di una strada per riconoscersi.
Voglio raccontarvi la trama in breve per non rovinarvi il piacere della scoperta passo dopo passo, capitolo dopo capitolo: Pietro è un ragazzino di città, solitario e un po’ scontroso. La madre lavora in un consultorio di periferia, e farsi carico degli altri è il suo talento. Il padre è un chimico, un uomo ombroso e affascinante, che torna a casa ogni sera dal lavoro carico di rabbia. I genitori di Pietro sono uniti da una passione comune, fondativa: in montagna si sono conosciuti, innamorati, si sono addirittura sposati ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo. La montagna li ha uniti da sempre, anche nella tragedia, e l’orizzonte lineare di Milano li riempie ora di rimpianto e nostalgia.
Quando scoprono il paesino di Grana, ai piedi del Monte Rosa, sentono di aver trovato il posto giusto: Pietro trascorrerà tutte le estati in quel luogo «chiuso a monte da creste grigio ferro e a valle da una rupe che ne ostacola l’accesso» ma attraversato da un torrente che lo incanta dal primo momento. E lì, ad aspettarlo, c’è Bruno, capelli biondo canapa e collo bruciato dal sole: ha la sua stessa età ma invece di essere in vacanza si occupa del pascolo delle vacche.
Iniziano così estati di esplorazioni e scoperte tra le case abbandonate, il mulino e i sentieri più aspri. Sono anche gli anni in cui Pietro inizia a camminare con suo padre, «la cosa più simile a un’educazione che abbia ricevuto da lui». Perché la montagna è un sapere, un vero e proprio modo di respirare, e sarà il suo lascito più vero: «Eccola lí, la mia eredità: una parete di roccia, neve, un mucchio di sassi squadrati, un pino». Un’eredità che dopo tanti anni lo riavvicinerà a Bruno.
Paolo Cognetti usa un linguaggio essenziale e straordinariamente evocativo, armonico e cadenzato con digressioni che non naufragano mai in subordinate rigonfie di inutili dettagli ma che pulsano di un rapido e maturo ritmo descrittivo.
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