Top&Flop: Harry Potter e la Maledizione dell’erede
“La verità…È una cosa meravigliosa e terribile, e per questo va trattata con grande cautela”
Così sospirava Silente rivolto ad Harry Potter nel primo libro della saga “fantasy” entrata ormai di diritto nell’Olimpo dei classici della letteratura. Così, ahimè, ho sospirato anche io nel divorare quello che è stato lo spin off più azzardato di sempre: “Harry Potter e la Maledizione dell’erede”, edito come da tradizione potteriana da Salani Editore, già best seller mondiale.
Come tanti, tantissimi orfani del mago più amato di sempre ho atteso con ansia e spasimo l’uscita dell’edizione italiana del libro, psicologicamente preparata al fatto che si trattasse del copione di uno spettacolo teatrale creato dall’estro di Jack Thorne e John Tiffany su soggetto della Rowling; l’ho prenotato online pur di assicurarmene una copia e aspettato il suono del campanello come una manna dal cielo. Arrivato insperatamente il giorno dopo il rilascio dell’edizione italiana, ben in anticipo di due giorni, non mi sono data pace finché non ne ho assaporato l’ultimo punto fermo, laddove seppur non evidente sta scritta la parola FINE.
E dunque?
In verità, in verità io vi dico… che a 19 anni di distanza dall’ultimo capitolo nato dalla penna di J. K. Rowling, l’imputato è il classico esempio di come si possa godere di luce riflessa, e cavalcare l’onda, anzi lo tzunami, di un fenomeno editoriale mondiale iniziato nel 1997.
Ora… tralasciando la trama (suvvia lo spoiler è l’8° peccato capitale ma sappiate che è banalotta) personalmente non sono rimasta né estasiata né soddisfatta di questo “ottavo libro ufficiale della saga”, come molti lo hanno (a mio parere erroneamente) definito.
La forma inusuale del racconto (è un copione teatrale, quindi solo con battute dei personaggi e una veloce descrizione della scena) potrebbe essere il primo grande scoglio per un lettore abituato ai sette libri precedenti, ma una volta entrati nel meccanismo tutto sommato si sopravvive, memori delle fatiche scolastiche nello studiare l’Adelchi di Manzoni o Shakespeare con il testo a fronte.
La seconda fatica del lettore è quella di stare dietro alla contestualizzazione, ovverosia il tempo della narrazione. Posto si tratti sempre di un copione teatrale sul tema della magia, il far trascorrere 4 anni nell’arco di 10 pagine, 5 scene e 1 atto non è così immediato da percepire, anzi ti lascia in bocca quella voglia di “non so ché” che nemmeno l’Ambrogio della Ferrero (Rocher Ndr) saprebbe come soddisfare.
Non c’è due senza tre, e infatti ecco quella che secondo il mio modesto e umile parere di nerd-potterhead convinta: innanzitutto la scelta kamikaze di inserire integralmente pagine degli originali romanzi come flashback “esplicativi” delle rocambolesche peripezie scatenate dalle condotte nevrotiche del secondogenito Potter e dell’ormai 40enne illustre padre in difficoltà di fronte ad un figlio in preda alle turbe adolescenziali e che deve fare i conti con un passato che si rifiuta di rimanere tale. La differenza con lo stile del resto del copione è palpabile, densa e persistente come la schiuma di una Burrobirra. Senza contare poi la caratterizzazione dei personaggi, una vera sorpresa in stile Gelatine Tuttigusti+1: di Harry &Son si è già detto, ma quello che più mi perplime è Ron Weasley. Premetto che è sempre stato uno dei miei personaggi preferiti, e vederlo ridotto ad interventi della caratura di un povero babbeo bonario e bonaccione (nemmeno babbano poi!) mi ha lasciata interdetta.
Nessuna sorpresa per Hermione invece, costruita sul modello di una Iron Lady in puro stile Mrs Tatcher, e Ginny Weasley, dal temperamento sempre fumino ma molto diversa dall’originale. I personaggi secondari non sono da meno, ridicole macchiette taroccate e inconsistenti. Una nota positiva, l’evoluzione di Draco Malfoy e la caratterizzazione di Scorpius, suo figlio, ironico e vero molto più di tutti gli altri. Anche se nel complesso rimane una vera balbettante bambocciona banda di babbuini.
Tralascio le considerazioni sulle scelte delle traduzioni, topic già annoso, laddove la Professoressa McGrannitt è diventata McGonagall e Tassorosso, Tassofrasso.
Sicuramente bisogna riconoscergli un lodevole tentativo di alleviare la nostalgia per le avventure del nostro maghetto e un ammirevole esercizio di “scrittura creativa” per riportare in auge i valori dell’amicizia, della lealtà, dell’umanità e della compassione (nel suo senso etimologico), ma non di più.
Insomma, non voglio tirarla per le lunghe e riscrivere la Storia della Magia, sono molto dolente comunicare che la mia valutazione non è sufficiente. “Harry Potter e la Maledizione dell’erede” non ha l’X-factor per entrare nel cuore di chi con Harry Potter è cresciuto.