“Panino al prosciutto” di Charles Bukowski
Imbattersi due volte nello stesso libro in età diverse ti fa capire quanto, autonomamente e senza troppi complimenti, sia cambiata la visione del tuo mondo.
Il libro in questione è “Panino al prosciutto” di Charles Bukowski.
Devo dire che non ho letto altro di Bukowski, o almeno non ne ho memoria, in tal caso me ne rammarico, anche se inaspettatamente, aver riletto questo mi ha colpito. Non tanto per le doti di scrittura dell’autore che sono state più e più volte decantate e pertanto non starò qui anche io a declamarle nuovamente. Ma perché questo romanzo riesce a lasciarti un gusto diverso di amaro in bocca a seconda della fase di vita in cui ti trovi.
Leggerlo due volte non equivale a rinfrescarti la memoria, ma a scoprire come il tuo sguardo verso te stesso sia cambiato. Non a caso, questo romanzo, in bilico tra finzione e autobiografia, ci narra dell’adolescenza di Henry Chinaski, un ragazzo adolescente e ribelle che vive le difficoltà dell’integrazione a livello scolastico e insieme sociale, inserito nel contesto della Grande Depressione; chiaramente un alterego di Bukowski, come notevole è l’assonanza con il cognome dell’autore, spesso però ci si chiede quanto sottile sia il confine tra realtà e finzione. I temi che affronta sono i più classici della vita di chiunque: i problemi con la scuola, i primi incontri/scontri con l’altro sesso, le amicizie sbagliate, i primi grossi errori. Un apprendistato duro che lo porta a vivere con disillusione e disinteresse quelli che sono i classici “sogni giovanili” e lo avvicina alla biblioteca pubblica e all’amicizia pura e semplice dei libri. Un percorso attraverso l’animo del vecchio scrittore solitario, dove la sensibilità di Bukowski traspare nonostante i toni rabbiosi.
Si sa bene che lo stile di scrittura di Bukowski è crudo, ruvido e spaventosamente vero, dai toni forti e spesso fastidiosi, ma necessari; un linguaggio che ne caratterizza lo stile e che funge da solida base per attraversare il traumatico viaggio attraverso la vita, un infinito travaglio come unica strada verso la conoscenza di se stessi e spesso, ma non per tutti, verso la libertà.
Non avevo interessi. Non riuscivo ad interessarmi a niente.
Non avevo idea di come sarei riuscito a cavarmela, nella vita.
Agli altri, almeno, la vita piaceva. Sembravano capire qualcosa che io non capivo.
Forse ero un po’ indietro. Era possibile.
Mi capitava spesso di sentirmi inferiore.
Volevo solo andarmene. Ma non c’era nessun posto dove andare.
Il suicidio? Gesù Cristo un’altra faticata.
Avevo voglia di dormire per cinque anni di fila, ma non me lo permettevano.